Lavoro e Previdenza Dal Jobs Act al decreto Dignità

Licenziamento ingiustificato: il futuro dopo le tutele (de)crescenti

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L’illegittimità costituzionale dell’indennità di licenziamento che spetta al lavoratore ingiustificatamente licenziato, prevista dal Jobs Act e crescente in ragione della sola anzianità di servizio, contrasta con i principi costituzionali di ragionevolezza e di uguaglianza. E’ quanto ha deciso la Corte costituzionale nell’udienza del 26 settembre 2018. Se è vero che il decreto Dignità rafforza il carattere dissuasivo dell’indennizzo incrementando i limiti minimi (da 4 a 6 mesi ) e massimi (da 24 a 36 mesi), la sentenza della Consulta apre due questioni correlate: l’adeguatezza dell’indennizzo rispetto alla perdita effettivamente subita e l’attribuzione al giudice del potere di valutarla.
Il 26 settembre la Corte costituzionale ha reso noto (con un comunicato pubblicato sul sito istituzionale) di aver dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, co. 1, del D.Lgs. n. 23/2015 nella parte che determina in modo rigido l’indennità spettante al lavoratore ingiustificatamente licenziato, in quanto la previsione di una indennità crescente in ragione della sola anzianità di servizio si pone in contrasto con i principi di ragionevolezza e uguaglianza di cui all’art. 3 e con il diritto alla tutela del lavoro sanciti dagli artt. 4 e 35 Cost..
Non c’è dubbio che tale pronuncia, che sarà depositata solo nelle prossime settimane, assesti un duro colpo a uno dei punti cardine della riforma del Jobs Act. E non mi riferisco alla scelta del legislatore di passare dalla tutela reintegratoria – ancora prevista per specifiche fattispecie di licenziamenti illegittimi – a quella della monetizzazione di tale garanzia, già dichiarata ammissibile dalla Consulta (sentt. n. 46/2000 e n. 303/2011) ma alle circoscritte modalità con le quali si è attuato tale passaggio (contenute negli artt. 3, 4, 6, 9 e 10).

La mancanza di parametri genera incertezze

Così come non ha mancato di suscitare una accentuata attenzione da parte di tutti i media che hanno sollevato molti dubbi sulle possibili conseguenze. Si è sottolineata la concreta possibilità che non solo si determini una totale incertezza sulla quantificazione del costo del licenziamento per l’impresa, essendo questo delegato d’ora in poi alla discrezionalità del giudice investito di un concreto potere decisionale – soprattutto con riferimento alle 20.000 cause di lavoro pendenti nei tribunali nazionali – ma anche che l’assenza di parametri certi di quantificazione, generi disuguaglianze nel trattamento di casi simili dovute unicamente a orientamenti diversi dei singoli giudici.
Incertezza che, come non si è mancato di ricordare, renderebbe meno attrattivo il nostro Paese per gli investimenti esteri. Andrebbe più correttamente osservato, tuttavia, che non è ai giudici che si può addebitare il fatto di aver dato “un colpo ulteriore all’affidamento degli operatori sulla stabilità della normativa”, ma all’incapacità del legislatore di approntare disposizioni che non siano in contrasto con i principi costituzionali.
Non v’è dubbio che sarà una precisa responsabilità e compito del Governo e/o del Parlamento garantire la certezza del diritto e intervenire almeno su questa parte della riforma del Jobs Act muovendo dal principio costituzionale cardine della tutela del lavoro e della dignità dei lavoratori, e tenendo conto delle esigenze di certezza del diritto di cui necessitano le imprese (e non solo), al fine di realizzare il giusto equilibrio tra le Parti.
Premesso che in attesa di conoscere le motivazioni e le argomentazioni addotte a supporto del giudizio di incostituzionalità della norma, la delicatezza dell’argomento consiglierebbe di sospendere qualunque giudizio, anche da parte della politica, eventuali osservazioni infratermine dovrebbero muovere dall’analisi delle argomentazioni contenute nell’ordinanza del Tribunale di Roma del 26.7.2017, n. 195, con la quale i giudici hanno sollevato la questione di illegittimità costituzionale della disposizione in commento, in quanto centrali, a mio giudizio, sia per l’esame delle conclusioni della Consulta, sia per la definizione dell’impianto della riforma dell’indennità di licenziamento.

Violazione del principio di uguaglianza

L’illegittimità costituzionale è stata sollevata con riguardo a tre gruppi di articoli: 3, 4 e 35, e 117 e 76 Cost..
In relazione alla violazione del principio di eguaglianza (art. 3), i giudici del Tribunale di Roma rilevano che la norma genera un trattamento irragionevolmente disuguale sia tra lavoratori assunti prima e dopo il 7 marzo 2015, sia tra quelli licenziati con provvedimenti affetti da illegittimità macroscopiche ovvero da vizi meramente formali, tutelati tutti con un indennizzo di identico ammontare. La data di assunzione, quale mero evento accidentale, viene di fatto ad incidere e “differenziare un rapporto da un altro a prescindere da ogni altro profilo sostanziale”.
Ma questo non è tutto, perché vanno attentamente considerate altre osservazioni:
- la misura contenuta dell’indennizzo non consente di attribuirgli quella funzione sanzionatoria che dovrebbe essere propria per aver posto in essere un “atto contrario alla legge e di inadempimento dell’impegno alla stabilità assunto con la stipulazione del contratto di lavoro a tempo indeterminato”;
- la compresenza di importi indennitari modesti e di agevolazioni contributive consentirebbe alle imprese di godere di effetti di “dumping sociale”;
- le tutele della riforma del Jobs Act non sarebbero “affatto crescenti” ma decrescenti, dato alle stampe prima della pubblicazione dell’ordinanza del Tribunale di Roma, visto che il lavoratore non può più accedere alle garanzie previste per gli assunti in data anteriore al 7 marzo 2015
- “la misura fissa non consente al giudice di valutare in concreto il pregiudizio sofferto” né di considerare in misura differenziata la gravità del vizio riscontrabile nel licenziamento e la durata del processo, “giungendo ad apprestare identica tutela a situazioni molto dissimili nella sostanza”.

Principi di tutela del lavoro

In relazione ai principi di tutela del lavoro (artt. 4 e 35), il sistema del Jobs Act, e in particolare la quantificazione dell’indennità, è “costruito su una consapevole rottura del principio di uguaglianza e solidarietà nei luoghi di lavoro che non può non spiegare effetti anche su altri diritti dei lavoratori costituzionalmente tutelati”, quali la libertà sindacale, la libertà di espressione e di dissenso, la difesa della dignità quando sia minacciata dai superiori.

Contrasto con la normativa esistente

In relazione ai principi che presiedono l’esercizio della funzione legislativa (artt. 76 e 117), i giudici del Tribunale di Roma hanno rilevato che la disciplina dell’indennità di licenziamento introdotta dal D.Lgs. n. 23/2015, sarebbe in contrasto con il criterio imposto dal comma 7, dell’art. 1, della legge delega n. 183/2014, che prescrive che le disposizioni attuative siano emanate in “coerenza con la regolazione dell’Unione europea e le convenzioni internazionali”. In particolare, sarebbero violati:
- l’art. 30 della Carta di Nizza che impone agli Stati membri di garantire una adeguata tutela in caso di licenziamento ingiustificato;
- l’art. 10 della Convenzione ILO (International Labour Organization) n. 158/1982, sul potere discrezionale del giudice, che dispone che nel caso in cui il licenziamento sia ingiustificato e se, tenuto conto della legislazione e della prassi nazionale, il giudice (o altri organismi individuati come competenti a giudicare l’atto di recesso) “non hanno il potere di annullare il licenziamento, e/o di ordinare o di proporre il reintegro del lavoratore, o non ritengono che ciò sia possibile nella situazione data, dovranno essere abilitati ad ordinare il versamento di un indennizzo adeguato o ogni altra forma di riparazione considerata come appropriata”;
- l’art. 24 della Carta sociale europea (riveduta nel 1996) che prevede “il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione”. Su questo punto i giudici considerano due elementi: a) la rilevanza delle prescrizioni di tale Carta che deriva dall’attribuzione alla stessa, al pari della CEDU (Carta Europea dei diritti dell’uomo), del carattere di norma interposta ex art. 117 Cost. – e come tale “idonea a rappresentare un parametro di costituzionalità del diritto interno” – riconosciuta dalla Consulta con sent. n. 178/2015; b) gli interventi interpretativi del Comitato europeo dei diritti sociali (CESD) in merito ai concetti di congruità e adeguatezza dell’indennizzo, in particolare quelli relativi al limite di 24 mesi fissato dalla legislazione finlandese e italiana (L. n. 92/2012). Da questi elementi il Tribunale di Roma ne desume che “qualsiasi limite risarcitorio che precluda una compensation commisurata alla perdita subita e sufficientemente dissuasiva è in contrasto con la Carta”.

Adeguatezza dell’indennizzo e discrezionalità del giudice

Se il decreto Dignità (D.L. n. 87/2018 convertito in legge n. 96/2018) ha contribuito a rafforzare il carattere dissuasivo dell’indennizzo, per effetto dell’incremento dei limiti minimo e massimo da 4 a 6 e da 24 a 36 mesi, la sentenza della Corte Costituzionale del 26 settembre scorso apre due questioni correlate: l’adeguatezza dello stesso indennizzo rispetto alla perdita effettivamente subita e l’attribuzione al giudice del potere di valutarla. Temi sui quali il legislatore dovrebbe comunque intervenire, unitamente ad altri di pari interesse, per ridisegnare l’intera materia in esame.
Per esempio, se da un lato appare fuori discussione la legittimità di una norma che preveda, in assenza di contenzioso, un indennizzo crescente al crescere dell’anzianità e compreso tra un limite minimo e uno massimo, come l’art. 3 del D.Lgs. 23/2015, dall’altro, dovrebbe essere disciplinata, in caso di impugnazione dell’atto di licenziamento, la facoltà del giudice di disporne l’integrazione nel caso in cui ne rilevasse l’inadeguatezza rispetto alla perdita effettivamente subita. In questo caso, però, dovrebbero essere introdotti dei criteri guida, quali, ad esempio, il comportamento delle parti, le condizioni familiari (come la presenza di disabili, malati non autosufficienti ecc.), la possibilità media di trovare un altro lavoro in rapporto all’età del lavoratore.
Ma l’intervento dovrebbe riguardare anche la disciplina di cui all’art. 6 sulla conciliazione, posto che l’inadeguatezza e la non dissuasività dei limiti ivi contenuti sembrano apparire ancor più evidenti, traslando questo onere sulle spalle dello Stato: il beneficio fiscale, oltre a rappresentare un ulteriore vulnus per l’equità del sistema tributario, determina un onere a carico della fiscalità generale e, quindi, dell’intera collettività (compreso quella che non è né parte né causa del rapporto di lavoro risolto).

Imprese con livelli dimensionali minimi

Ma una seria valutazione di coerenza e attualità dovrebbe coinvolgere anche i limiti previsti dall’art. 9 dello stesso decreto riferiti alle imprese che non raggiungono i livelli dimensionali di cui all’art. 18, della L. n. 300/1970. Limiti anche previsti dall’art. 8, della L. n. 604/1966. Le ragioni per cui venne prevista questa differenziazione sono note, così come lo sono anche le argomentazioni a sostegno addotte dalla giurisprudenza negli ultimi cinquant’anni. Ma al tempo “piccolo era bello” mentre oggi questo rappresenta, escluso poche brillanti eccezioni, solo un problema per lo sviluppo del Paese. Se si vuole indurre realmente, e non solo con dichiarazioni di mero principio, le aziende a crescere – condizione imprescindibile per la loro stessa sopravvivenza – non possono più sussistere fattori che invoglino gli imprenditori a non superare certe soglie dimensionali. Senza contare che per un lavoratore dipendente, il danno subito per la perdita del lavoro non dipende certo dalla dimensione dell’impresa.
Infine, visto il prevedibile andamento dei conti del sistema previdenziale e le certe maggiori esigenze di welfare che il futuro richiederà, l’attenzione del legislatore dovrebbe essere rivolta anche all’(in)opportunità di escludere dall’indennizzo i relativi contributi di legge, previdenziali e assistenziali, che dovrebbero essere attribuiti agli enti competenti.

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