La necessità di governare l’emergenza non deve far venire meno i propositi di una riforma strutturale del sistema fiscale. Anzi deve essere l’occasione per richiamare l’attenzione del legislatore sulla necessità di ridisegnare un sistema delle entrate pubbliche idoneo a governare le emergenze. Che sempre meno sono straordinarie. Sarebbe un peccato se i discorsi riformatori che si stavano avviando, soprattutto sull’urgenza di ritoccare i prelievi sui redditi, venissero accantonati o sospesi perché scavalcati dalla legislazione sull’emergenza. Proprio perché, quando questa finirà, il Paese avrà bisogno di un ordinamento adeguato a sostenere una ripresa. Sarà indispensabile trovare strumenti normativi efficaci...
L’Italia, come buona parte del mondo, sta vivendo una fase di straordinaria emergenza abbastanza imprevedibile (non del tutto, perché l’ipotesi di un incremento dei fenomeni di epidemia è da tempo segnalata dagli osservatori della civiltà globalizzata). Emergenza non solo sanitaria, poiché fatalmente coinvolge la vita quotidiana e ha riflessi pesantissimi sull’economia; emergenza le cui caratteristiche sono in qualche misura nuove, poiché da lungo tempo non era stato necessario alla legge limitare la libera circolazione delle persone.
L’atteggiamento più spontaneo e naturale davanti all’emergenza è quello di considerarla come una parentesi, un intermezzo che abbia la durata più breve possibile e che con il suo esaurirsi consenta quanto prima il ritorno alla normalità.
Un evento di questa portata, però, difficilmente, quando finisce, consente un ritorno del tutto neutro alle condizioni precedenti. Soprattutto se alcune misure dovranno essere mantenute per un periodo non brevissimo, diciamo di qualche mese, l’impressione è che esse possano avere un’influenza sul modo di riprendere la vita normale, e non necessariamente in senso negativo.
Il dato più importante è quello della ridotta mobilità delle persone; si cerca di evitare il più possibile spostamenti, affollamenti, riunioni; l’emergenza si giova della tecnologia e ricorre ad essa per consentire di realizzare a distanza quello che non è consigliabile fare in presenza. L’evoluzione era già in atto, ma subisce un’accelerazione imprevista nei tempi.
In definitiva, l’emergenza costringe a un esperimento forzato, di dimensioni molto ampie, che probabilmente non si sarebbe mai sviluppato, in presenza di condizioni normali: si pensi al fenomeno sociale di una città come Milano che bruscamente vede la sua energia e la sua frenesia dinamica confinate in ambienti ristretti e parcellizzate in apporti individuali.
Potremmo anche scoprire (temo, non me lo auguro), finita l’emergenza, che si può vivere abitualmente in modo diverso, che lo smart working può diventare in molti casi una regola, che la didattica a distanza funziona benissimo, che quegli spostamenti di massa che tanto turbano la vita delle città e l’ambiente possono essere drasticamente ridotti; potremmo anche capirne gli effetti negativi, in chiave economica, sociale, psicologica. Insomma, l’emergenza potrebbe affrettare il passaggio a un mondo fatto principalmente di comunicazione digitale e il ritorno alla normalità potrebbe riservare la sorpresa di una normalità assai diversa dalla precedente.
È evidente allora che l’emergenza non è estranea alla vita ordinaria, ne è parte, ne può determinare un cambiamento che persiste oltre la sua durata in senso stretto: diventa insomma una parte dell’ordinario vivere.
Trasportando queste considerazioni sul piano della fiscalità, credo che la necessità di governare l’emergenza non debba far venir meno i propositi di riforma strutturale del sistema, ma sia utile invece a richiamare l’attenzione del legislatore sulla necessità di ridisegnare un sistema delle entrate pubbliche idoneo a governare emergenze che sempre meno sono straordinarie perché in realtà si susseguono pur alternandosi tra diverse tipologie (ambientali, meteorologiche, infrastrutturali).
Nella consapevolezza, ad esempio, che in alcuni gangli vitali non ci sono esigenze di spesa pubblica che possano giustificare la compressione oltre certi limiti dell’efficienza del servizio pubblico (sanità, scuola e giustizia sono i settori che, con tutta evidenza, avrebbero retto meglio l’impatto con l’emergenza se avessero potuto affrontarla nel pieno della dotazione di risorse umane e di mezzi tecnologici).
La prevedibile concessione di margini di incremento del debito pubblico è peraltro un’arma a doppio taglio; sebbene utile in questa fase, essa allontana ulteriormente quelle prospettive di risanamento che devono sempre cedere il passo ad altri “prevalenti” valori; è dunque indispensabile che la manovra individui con esattezza le priorità e i settori in cui investire.
Sotto il profilo strettamente tributario, sarebbe un peccato se i discorsi riformatori che si stavano avviando, soprattutto sulla urgenza di ritoccare i prelievi sui redditi, venissero accantonati o sospesi perché scavalcati dalla legislazione sull’emergenza. Proprio perché, quando questa finirà, il Paese avrà bisogno di un ordinamento adeguato a sostenere una ripresa, e allora sarà indispensabile trovare strumenti normativi adeguati agli obiettivi.
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