Fisco L’Editoriale di Franco Osculati

Cuneo fiscale, all’incrocio di fisco e welfare state

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Mettere più soldi nelle tasche dei lavoratori, a parità di costi per i datori? Nessuno può dichiararsi contrario a questa prospettiva; le difficoltà però non mancano. Sono in gioco le entrate dei lavoratori di oggi e anche quelle di domani, perché la parte di cuneo contributiva finanzia pensioni e TFR. Il cuneo non è un meccanismo a sé stante, ma si colloca all’incrocio dei principali meccanismi di prelievo fiscale e di welfare state. Sebbene qualche limatura sia sempre possibile, una riduzione netta (“shock” nel linguaggio politico) e duratura del cuneo appare lontana. In termini di priorità politica il discorso dovrebbe essere svolto anche in relazione al costo del lavoro, nonché in rapporto ai fini equitativi della tassazione, intervenendo sull’IRPEF sulla falsariga della legge di Bilancio 2022 (auspicabilmente in modo più deciso).
È abitudine abbastanza consolidata affrontare il tema del cuneo fiscale e contributivo dando uno sguardo ai confronti internazionali che, si lascia intendere, offrirebbero indicazioni sulle capacità della nostra economia di competere sui mercati internazionali. I confronti devono essere maneggiati con cura perché esistono fonti diverse e metodi non sempre omogenei. Le stime si devono riferire a situazioni comparabili dal punto di vista fiscale e contributivo. Evidentemente il caso di un lavoratore italiano senza carichi di famiglia va distinto dal caso di un lavoratore francese con famiglia.
Inoltre, i confronti devono fare perno su livelli di retribuzione non dissimili. È preferibile (cfr. Tabella n. 1) fare riferimento a redditi medio-bassi: sui redditi più modesti non grava l’IRPEF (o l’imposta sul reddito vigente nei vari Paesi); ne consegue che il cuneo è solo contributivo. È scontato che se l’imposta sul reddito è progressiva, il cuneo aumenta all’aumentare del reddito. Inutile aggiungere che per i dirigenti industriali remunerati con somme prive delle caratteristiche fiscali del reddito da lavoro (per esempio, le stock options) non ha senso parlare di cuneo.
Tabella n. 1 - Cuneo fiscale sul costo del lavoro. Lavoratore singolo, senza figli, con reddito pari al 67% del reddito del lavoratore medio. 2012-2013 e 2020-2021. Percentuali.
2012
2013
2020
2021
Austria
44.2
44.6
42.9
43.3
Belgio
50.5
50.0
45.4
46.2
Danimarca
33.8
33.3
32.5
32.7
Francia
46.9
45.5
39.7
41.1
Germania
45.5
45.1
42.9
43.3
Italia
44.7
44.9
40.9
41.2
Repubblica Ceca
39.4
39.4
41.8
37.6
Romania
43.4
40.8
38.0
38.2
Slovacchia
37.6
38.7
39.0
39.0
Slovenia
38.6
38.5
40.2
40.4
Ungheria
47.9
49.0
42.9
43.3
Area Euro
42.8
42.5
39.7
40.0
Fonte: Eurostat, 25/03/22. I dati in percentuale derivano dal rapporto A/B, dove A comprende le imposte (statali e locali) sul reddito e i contributi a carico del datore e del lavoratore, mentre B è la somma del reddito lordo e dei contributi a carico del datore di lavoro.
I dati comparativi non possono non riflettere, poco o tanto, le differenze strutturali dei vari sistemi di finanza pubblica e di welfare state. Paesi privi di sistemi di sanità pubblica universale e/o con sistemi scolastici e previdenziali residuali dovrebbero registrare modesti valori del cuneo; l’opposto i Paesi con servizi pubblici sviluppati. Restringendo l’osservazione all’Europa, inoltre, ci si aspetterebbe di constatare la presenza di valori del cuneo bassi nei Paesi meno ricchi e di più recente adesione all’Unione europea, quelli che sembrano puntare sul costo del lavoro come principale via allo sviluppo. In realtà, il quadro è più complesso, come indicano alcuni esempi (scelti soprattutto tra i Paesi simili all’Italia e ad essa più vicini) raccolti in Tabella n. 1.
Il dato italiano, al 2021, è uguale a quello francese, inferiore a quelli austriaco, belga, tedesco e persino ungherese. Esso non è lontano dalla media dell’Area euro, nonché da quanto si stima per Slovacchia e Slovenia. Come in particolare in Francia, nei dieci anni prima del 2021 il cuneo italiano si è ridotto significativamente. Hanno giovato soprattutto il bonus IRPEF (introdotto nel 2014 e aumentato nel 2019), l’aumento delle detrazioni per il lavoro dipendente (dal 2019), l’esclusione del costo del lavoro a tempo indeterminato dall’imponibile IRAP (dal 2015). La legge di Bilancio 2022, riducendo il numero degli scaglioni e ritoccando alcune aliquote dell’IRPEF, ha alleviato il peso di quest’imposta per tutti livelli di reddito (anche superiori a 75.000 euro) e ha migliorato il sistema delle detrazioni a vantaggio dei redditi medio bassi.
Nella Tabella n. 1 spicca il caso della Danimarca che è spiegato, in gran parte, dalla Tabella n. 2.
Tabella n. 2 - Entrate fiscali e contributive totali, imposte indirette, imposte dirette e contributi sociali. Quote sul PIL. 2012 e 2020.
Anno
Entrate fiscali e contributive totali
Imposte indirette
Imposte dirette
Contributi sociali
Austria
2012
41.8
12.0
11.9
14.1
2020
42.1
11.5
11.6
15.6
Belgio
2012
44.3
11.4
15.4
14.3
2020
43.1
10.7
15.2
13.7
Danimarca
2012
45.5
15.1
28.2
0.1
2020
46.5
14.3
29.9
0.1
Francia
2012
44.4
11.6
10.6
16.0
2020
45.4
12.3
11.9
14.8
Germania
2012
36.8
10.8
11.1
14.0
2020
38.3
9.8
12.0
15.2
Italia
2012
43.6
11.7
14.2
13.0
2020
42.9
11.5
14.2
13.5
Repubblica Ceca
2012
33.4
11.5
6.8
14.6
2020
34.4
10.8
7.5
15.8
Slovacchia
2012
28.7
10.7
5.4
12.2
2020
34.8
12.2
6.6
15.5
Slovenia
2012
37.7
14.2
6.9
15.9
2020
36.9
12.6
6.7
16.8
Ungheria
2012
39.0
17.1
6.8
13.2
2020
35.7
16.2
6.3
11.1
Fonte: OECD data base
In Danimarca, Paese ad alta pressione fiscale, il cuneo è modesto dato che non esistono contributi sociali. Le pensioni e il resto del welfare state vengono pagati dal prelievo fiscale che poggia su una forte componente di imposte dirette (pagate non solo dal lavoro dipendente) e di imposte indirette. Quest’ultimo elemento potrebbe suggerire una via da percorrere anche in Italia, cioè avviare una ricomposizione del prelievo complessivo aumentando il contributo delle imposte indirette (l’IVA soprattutto). Contro questa ipotesi abbiamo non tanto la (contenuta) regressività dell’IVA, quanto il contesto inflazionistico che non appare transitorio.
In astratto la ricomposizione del prelievo potrebbe coinvolgere anche i contributi sociali. Più IVA (che non si paga alla frontiera all’uscita delle merci) e meno contributi sarebbe una buona mossa a favore delle capacità di esportare, ma, a parte i riflessi sull’inflazione, c’è spazio per una netta riduzione dei contributi?
Si direbbe di no.
Anzitutto, nel campione di Tabella n. 2, solo Danimarca e Ungheria applicano meno contributi e, soprattutto, larga parte dei contributi italiani finanziano le pensioni, che sono salario differito. Una drastica riduzione dei contributi metterebbe in gioco l’assetto pensionistico vigente.
La riforma del 1995 che lo introdusse fu basata sull’idea di dotare il Paese di un sistema a ripartizione, con calcolo contributivo, sostenibile che garantisse dopo 40 anni di lavoro una pensione all’incirca pari all’80% dell’ultimo salario o stipendio. A questo primo pilastro pubblico, obbligatorio, si sarebbero aggiunti un secondo e anche un terzo pilastro a capitalizzazione eventualmente volontario.
Dopo un quarto di secolo si deve constatare che i 40 anni di regolare anzianità contributiva per molti lavoratori sono una chimera e che i livelli salariali prevalenti sono tali da ostacolare e impedire consistenti forme di risparmio previdenziale aggiuntivo. Partendo da questa situazione si può forse congetturare attorno a un parziale abbandono del principale caposaldo della Riforma Dini, e cioè che la pensione sarà pari a quanto si è pagato in contributi.
Attualmente l’aliquota (parte formalmente sul datore e parte sul lavoratore) è il 33%. Non può essere ridotta perché se si lavorasse meno di 40 anni la pensione sarebbe assai magra. L’aliquota potrebbe essere modificata a regime se si istituisse qualcosa di simile a una pensione di cittadinanza, ovvero una soglia di partenza uguale per tutti, con 40 anni di lavoro continuato o con carriere inferiori. Per questa parte della pensione servirebbe però un finanziamento alternativo a quello contributivo e quindi ritorneremmo ai noti problemi del sistema tributario.
Come per ogni provvedimento che comporti riduzione di entrate last but not least si potrebbe ricorrere alla riduzione della spesa. Naturalmente ciascuno saprebbe indicare uno “spreco” commesso nella pubblica amministrazione il cui superamento comporterebbe risparmio. In verità, anche per rinunciare agli sprechi occorre un consenso, non sempre facile da raggiungere. Inoltre, si tratterebbe di individuare tagli di spesa pubblica non di miliardi ma di decine di miliardi. Ambienti della Confindustria hanno indicato una riduzione del cuneo di un punto di PIL, cioè 18-20 miliardi. Ridimensionare la spesa per un importo simile, o anche per un importo vicino alla sua metà, è impossibile. Il nostro Paese già da tempo sta riducendo la spesa, anche sul versante della spesa corrente. In alcuni comparti come quelli strategici della scuola e della sanità siamo al limite. Certamente abbiamo contenuto e ridotto più di altri Paesi, come indicato in Tabella n. 3 per il campione delle precedenti tabelle.
Tabella n. 3 - Tassi percentuali di incremento annuo dei consumi pubblici. 2003-2022
Media sui 5 anni
Previsioni
2003-2007
2008-2012
2013-2017
2018
2019
2020
2021
2022
2023
Austria
1.9
1.2
1.0
1.2
1.5
-0.5
6.7
-1.2
0.7
Belgio
1.5
1.3
0.5
1.4
2.0
-0.4
4.4
0.8
0.3
Danimarca
1.3
1.6
0.9
0.0
1.5
-1.7
3.7
1.4
0.6
Francia
1.7
1.5
1.3
0.8
1.0
-3.2
6.3
1.7
0.5
Germania
0.7
2.1
2.3
1.0
3.0
3.5
3.1
0.5
0.2
Italia
0.5
-0.4
-0.3
0.1
-0.5
0.5
0.6
0.9
0.9
Repubblica Ceca
1.3
-0.1
1.9
3.8
2.5
3.4
1.6
0.6
1.3
Romania
-1.1
1.2
1.0
3.3
7.3
1.8
0.4
0.1
-0.1
Slovacchia
2.9
1.9
2.7
-0.1
4.6
0.9
1.9
-1.7
0.2
Slovenia
2.8
0.9
0.6
3.0
2.0
4.2
3.9
0.4
1.1
Ungheria
Area Euro
1.8
1.1
1.1
1.1
1.9
1.1
3.9
0.8
0.5
Fonte: Eu, European Economic Forecast. Spring 2020
Interventi minori, per importi di qualche miliardo, possibili sul piano della copertura possono presentare debolezze sul piano della coerenza del sistema.
Per esempio, dal lato dell’IRPEF, un aumento della no tax area per i lavoratori dipendenti, dal punto di vista dell’accettabilità politica, non può andare molto al di là della no tax area dei lavoratori autonomi (e dei pensionati). Sul lato dei contributi, provvedimenti di fiscalizzazione riservati alle donne o ai giovani avrebbero, nel primo caso, l’effetto di privilegiare, per esempio, l’industria della moda ma non quelli della metallurgia e delle costruzioni e, nel secondo caso, l’effetto di incentivare l’interruzione delle carriere contributive (mediante sostituzione di lavoratori giovani a lavoratori più anziani). Anche l’annullamento dei contributi sulla remunerazione corrispondente alle ore di straordinario probabilmente non sarebbe di grande aiuto per la produttività del lavoro.
In conclusione, un taglio del cuneo epocale e consistente, che sia anche duraturo e sostenibile nel tempo, non sembra possibile a meno di non modificare nel profondo il sistema tributario e il sistema pensionistico.
In esito al passaggio parlamentare della delega il sistema fiscale non cambierà granché. Quanto alle pensioni, nessuno propone un parziale abbandono del finanziamento contributivo.
È finito il momento del “dare” (come da dichiarazione di Mario Draghi di un anno fa): la scappatoia di nuovo debito pubblico sarebbe avventurosa.

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