I dati comparativi non possono non riflettere, poco o tanto, le differenze strutturali dei vari sistemi di finanza pubblica e di welfare state. Paesi privi di sistemi di sanità pubblica universale e/o con sistemi scolastici e previdenziali residuali dovrebbero registrare modesti valori del cuneo; l’opposto i Paesi con servizi pubblici sviluppati. Restringendo l’osservazione all’Europa, inoltre, ci si aspetterebbe di constatare la presenza di valori del cuneo bassi nei Paesi meno ricchi e di più recente adesione all’Unione europea, quelli che sembrano puntare sul costo del lavoro come principale via allo sviluppo. In realtà, il quadro è più complesso, come indicano alcuni esempi (scelti soprattutto tra i Paesi simili all’Italia e ad essa più vicini) raccolti in Tabella n. 1.
Nella Tabella n. 1 spicca il caso della Danimarca che è spiegato, in gran parte, dalla Tabella n. 2.
In Danimarca, Paese ad alta pressione fiscale, il cuneo è modesto dato che non esistono contributi sociali. Le pensioni e il resto del welfare state vengono pagati dal prelievo fiscale che poggia su una forte componente di imposte dirette (pagate non solo dal lavoro dipendente) e di imposte indirette. Quest’ultimo elemento potrebbe suggerire una via da percorrere anche in Italia, cioè avviare una ricomposizione del prelievo complessivo aumentando il contributo delle imposte indirette (l’IVA soprattutto). Contro questa ipotesi abbiamo non tanto la (contenuta) regressività dell’IVA, quanto il contesto inflazionistico che non appare transitorio.
In astratto la ricomposizione del prelievo potrebbe coinvolgere anche i contributi sociali. Più IVA (che non si paga alla frontiera all’uscita delle merci) e meno contributi sarebbe una buona mossa a favore delle capacità di esportare, ma, a parte i riflessi sull’inflazione, c’è spazio per una netta riduzione dei contributi?
Si direbbe di no.
Anzitutto, nel campione di Tabella n. 2, solo Danimarca e Ungheria applicano meno contributi e, soprattutto, larga parte dei contributi italiani finanziano le pensioni, che sono salario differito. Una drastica riduzione dei contributi metterebbe in gioco l’assetto pensionistico vigente.
La riforma del 1995 che lo introdusse fu basata sull’idea di dotare il Paese di un sistema a ripartizione, con calcolo contributivo, sostenibile che garantisse dopo 40 anni di lavoro una pensione all’incirca pari all’80% dell’ultimo salario o stipendio. A questo primo pilastro pubblico, obbligatorio, si sarebbero aggiunti un secondo e anche un terzo pilastro a capitalizzazione eventualmente volontario.
Dopo un quarto di secolo si deve constatare che i 40 anni di regolare anzianità contributiva per molti lavoratori sono una chimera e che i livelli salariali prevalenti sono tali da ostacolare e impedire consistenti forme di risparmio previdenziale aggiuntivo. Partendo da questa situazione si può forse congetturare attorno a un parziale abbandono del principale caposaldo della Riforma Dini, e cioè che la pensione sarà pari a quanto si è pagato in contributi.
Attualmente l’aliquota (parte formalmente sul datore e parte sul lavoratore) è il 33%. Non può essere ridotta perché se si lavorasse meno di 40 anni la pensione sarebbe assai magra. L’aliquota potrebbe essere modificata a regime se si istituisse qualcosa di simile a una pensione di cittadinanza, ovvero una soglia di partenza uguale per tutti, con 40 anni di lavoro continuato o con carriere inferiori. Per questa parte della pensione servirebbe però un finanziamento alternativo a quello contributivo e quindi ritorneremmo ai noti problemi del sistema tributario.
Come per ogni provvedimento che comporti riduzione di entrate last but not least si potrebbe ricorrere alla riduzione della spesa. Naturalmente ciascuno saprebbe indicare uno “spreco” commesso nella pubblica amministrazione il cui superamento comporterebbe risparmio. In verità, anche per rinunciare agli sprechi occorre un consenso, non sempre facile da raggiungere. Inoltre, si tratterebbe di individuare tagli di spesa pubblica non di miliardi ma di decine di miliardi. Ambienti della Confindustria hanno indicato una riduzione del cuneo di un punto di PIL, cioè 18-20 miliardi. Ridimensionare la spesa per un importo simile, o anche per un importo vicino alla sua metà, è impossibile. Il nostro Paese già da tempo sta riducendo la spesa, anche sul versante della spesa corrente. In alcuni comparti come quelli strategici della scuola e della sanità siamo al limite. Certamente abbiamo contenuto e ridotto più di altri Paesi, come indicato in Tabella n. 3 per il campione delle precedenti tabelle.
Tabella n. 3 - Tassi percentuali di incremento annuo dei consumi pubblici. 2003-2022
| Media sui 5 anni | | | | Previsioni |
| 2003-2007 | 2008-2012 | 2013-2017 | 2018 | 2019 | 2020 | 2021 | 2022 | 2023 |
Austria | 1.9 | 1.2 | 1.0 | 1.2 | 1.5 | -0.5 | 6.7 | -1.2 | 0.7 |
Belgio | 1.5 | 1.3 | 0.5 | 1.4 | 2.0 | -0.4 | 4.4 | 0.8 | 0.3 |
Danimarca | 1.3 | 1.6 | 0.9 | 0.0 | 1.5 | -1.7 | 3.7 | 1.4 | 0.6 |
Francia | 1.7 | 1.5 | 1.3 | 0.8 | 1.0 | -3.2 | 6.3 | 1.7 | 0.5 |
Germania | 0.7 | 2.1 | 2.3 | 1.0 | 3.0 | 3.5 | 3.1 | 0.5 | 0.2 |
Italia | 0.5 | -0.4 | -0.3 | 0.1 | -0.5 | 0.5 | 0.6 | 0.9 | 0.9 |
Repubblica Ceca | 1.3 | -0.1 | 1.9 | 3.8 | 2.5 | 3.4 | 1.6 | 0.6 | 1.3 |
Romania | -1.1 | 1.2 | 1.0 | 3.3 | 7.3 | 1.8 | 0.4 | 0.1 | -0.1 |
Slovacchia | 2.9 | 1.9 | 2.7 | -0.1 | 4.6 | 0.9 | 1.9 | -1.7 | 0.2 |
Slovenia | 2.8 | 0.9 | 0.6 | 3.0 | 2.0 | 4.2 | 3.9 | 0.4 | 1.1 |
Ungheria | | | | | | | | | |
Area Euro | 1.8 | 1.1 | 1.1 | 1.1 | 1.9 | 1.1 | 3.9 | 0.8 | 0.5 |
Fonte: Eu, European Economic Forecast. Spring 2020 |
Interventi minori, per importi di qualche miliardo, possibili sul piano della copertura possono presentare debolezze sul piano della coerenza del sistema.
Per esempio, dal lato dell’IRPEF, un aumento della no tax area per i lavoratori dipendenti, dal punto di vista dell’accettabilità politica, non può andare molto al di là della no tax area dei lavoratori autonomi (e dei pensionati). Sul lato dei contributi, provvedimenti di fiscalizzazione riservati alle donne o ai giovani avrebbero, nel primo caso, l’effetto di privilegiare, per esempio, l’industria della moda ma non quelli della metallurgia e delle costruzioni e, nel secondo caso, l’effetto di incentivare l’interruzione delle carriere contributive (mediante sostituzione di lavoratori giovani a lavoratori più anziani). Anche l’annullamento dei contributi sulla remunerazione corrispondente alle ore di straordinario probabilmente non sarebbe di grande aiuto per la produttività del lavoro.
In conclusione, un taglio del cuneo epocale e consistente, che sia anche duraturo e sostenibile nel tempo, non sembra possibile a meno di non modificare nel profondo il sistema tributario e il sistema pensionistico.
In esito al passaggio parlamentare della delega il sistema fiscale non cambierà granché. Quanto alle pensioni, nessuno propone un parziale abbandono del finanziamento contributivo.
È finito il momento del “dare” (come da dichiarazione di Mario Draghi di un anno fa): la scappatoia di nuovo debito pubblico sarebbe avventurosa.
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